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O Rraù di EDUARDO DE FILIPPO

'O rraù ca me piace a me
m' 'o faceva sulo mamma.
A che m'aggio spusato a te,
ne parlammo pè ne parlà.
Io nun songo difficultuso;
ma luvà mmel' 'a miezo st'uso.
Sì, ba vuono: cumme vuò tu.
Mò ce avéssem' appiccecà?
Tu che dice? Chist' 'e rraù?
E io m' 'o mmagno pe' m' 'o mangià...
M' 'a faje dicere na parola?...
Chesta è carne c' 'a pummarola!

Grazie Eduardo!!!

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'A riggina 'e Napule (a pummarola) di Alfredo De Lucia

Ce ne stanno riggine ncopp' 'a terra,
ca fanno bene a chesta umanità
ca so' carnale e ca nun fanno 'a guerra,
ma 'a riggina cchiù ricca è chesta ccà!

Quanno 'o sole addeventa na furnace,
essa spanne 'int' 'e ccase addore e gusto,
cchiù zucosa addeventa e cchiù te piace
quanno nfoca 'a cuntrora 'o mese austo.

A Napule che regna? 'A pummarola!
Aggarba 'o maccarone e 'a mulignana,
chesta riggina 've fa cunzulà.

Quanno 'a spremmite dint' 'a cassarola
o pappea p' 'o rraù dint' 'a tiana,
pure a nu muorto fa risuscità.

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Er medico m'ha detto di Aldo Fabrizi

"Commenda cari, è d’uopo che lo dica
ma l’italiano, escluso il proletario,
pappa tre volte più del necessario,
sottoponendo il cuore a ‘na fatica.

Di fame, creda, non si muore mica,
piuttosto accade tutto l’incontrario,
e chi vol diventare centenario
deve evità perfino la mollica.

Perciò m’ascolti, segua il mio dettame;
io quando siedo a tavola non m’empio
e m’alzo sempre avendo ancora fame!"

Embè quanno che ar medico ce credi,
bisogna daje retta: mò, presempio,
l’urtimo piatto me lo magno in piedi!

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Il pane di Gianni Rodari

Se io facessi il fornaio, vorrei cuocere il pane
così grande da sfamare tutta, tutta la gente
che non ha da mangiare.

Un pane più grande del sole, dorato, profumato come le viole.
Un pane così verrebbero a mangiarlo dall’India e dal Chili
i poveri, i bambini, i vecchietti e gli uccellini.

Sarà una data da studiare a memoria: un giorno senza fame!
Il più bel giorno di tutta la storia.

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La genovese: storia e leggende del celebre primo piatto Napoletano

Quando si parla di genovese a Napoli prima o poi c’è sempre qualcuno che si chiede "ma se è napoletana, per quale motivo si chiama così?" e la risposta non è mai una sola. Purtroppo il motivo vero per cui un sugo partenopeo prenda il nome di un’altra zona d’Italia non si conosce, ma sono state avanzate le ipotesi più fantasiose per giustificare il nome di questo piatto.  Eccone alcune.

La teoria Angioina sulla Genovese
Non tutti i reperti sulla genovese sono riconducibili all’800. La fonte più antica risale addirittura al 1285 nel "Liber de coquina", un libro di cucina scritto in latino volgare, presumibilmente a Napoli, dedicato a Carlo II d’Angiò e ritrovato nell’Archivio Nazionale di Parigi. Qui si trova la Tria Genovese, dove "tria" è un termine che risale al Basso Medioevo per indicare la pasta. Questa ricetta racconta di un sugo a cottura molto lenta preparato con cipolle e carne.

Gli Angioini all’epoca del libro si erano da poco insediati a Napoli e l’influenza francese è davvero predominante. Secondo molti la genovese sarebbe una discendenza del "Boeuf à la mode", letteralmente "manzo alla moda", uno dei piatti più celebri di Francia: si tratta senza ombra di dubbio dell’antenato del brasato. Perché "alla moda"? Pare che questo boef sia stato il piatto di portata principale delle grandi feste per secoli.

La teoria aragonese sulla Genovese
Ogni regnante ha la sua genovese personale, dagli Angioini agli Aragonesi. Sotto il dominio spagnolo si affermano in Italia le Repubbliche Marinare e, tra Napoli e Amalfi, nascono due dei porti più importanti del Mediterraneo. Anche queste origini della
genovese concedono la natività del piatto alla città ligure, anche questa teoria riconduce la storia della genovese al rapporto marittimo tra Napoli e Genova.
La tesi è supportata dai tantissimi scambi che ci sono stati tra i due porti e i due popoli. Nelle antiche cartografie della città partenopea c’è addirittura un vicolo, ormai scomparso, chiamato "vico dei genovesi", popolato da ex marinai innamorati della città che si sono trasferiti a Napoli: forse proprio tra questi vicoli i marinai hanno insegnato ai compagni di ventura la preparazione di questa salsa. La sosta a Napoli in epoca medievale è d’obbligo ed è accertata: tutte le navi dirette verso Oriente attraccano in Campania prima di volgere le vele verso la Turchia.

La teoria elvetica sulla Genovese
Questa tesi ci riporta all’estero, sulle sponde di un magnifico lago alpino. Il termine "genovese" non deriverebbe da Genova ma dal francese Geneve, la città svizzera. Questa interpretazione ai napoletani non piace, forse perché la nazione elvetica non ha grande fama in ambito culinario. La cosa strana è che questa teoria sarebbe direttamente collegata alla leggenda più romantica legata alla nascita di questo piatto, ma anche la più tramandata del capoluogo campano: il cuoco Genovese. Dagli Aragonesi passiamo alla corte dei Borbone.

Il maiuscolo non è messo a caso perché secondo questa leggenda il piatto sarebbe un omaggio a un cuoco che di cognome fa Genovese.

Questo cognome è abbastanza diffuso a Napoli quindi la storia non è campata in aria, ma qui il mito si ingarbuglia: la vulgata popolare è confusa a riguardo, c’è chi parla di un cognome, chi di un soprannome. Questo cuoco, che sarebbe meglio chiamare monzù come venivano chiamati gli chef alla corte dei Borbone, sarebbe nativo di Ginevra e quindi il soprannome sarebbe ‘o Genoves. Anche in questo caso non per la città ligure ma per il “geneves” svizzero.


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PASSIONE VINI CAMPANI

La Campania è una regione del sud Italia di grande rilevanza nell’universo vitivinicolo italiano, soprattutto per ciò che concerne la valorizzazione dei vitigni autoctoni. I vigneti del territorio campano ricoprono circa 30 mila ettari, con numerose cantine di piccole dimensioni e a conduzione familiare.
La viticoltura in Campania ha origini antichissime: infatti già prima dell’arrivo degli Etruschi, c’erano popolazioni dedite alla coltivazione della vite. Gli Etruschi prima e i Greci poi, si occuparono dello sviluppo nelle tecniche di produzione. All’epoca romana, cosicché, i vini campani erano già considerati i più pregiati del tempo, i preferiti dagli imperatori dell’Impero, e il Falerno era lodato come il miglior vino in assoluto. A partire dal XVII secolo, il ventaglio di vitigni campani subisce un considerevole mutamento che vede emergere i vitigni che oggi portano la bandiera della viticoltura campana.

In questa regione i vitigni internazionali non giocano alcun ruolo importante: i produttori campani, infatti, sono riusciti a valorizzare la grande varietà di vitigni autoctoni che possiede la regione. I vitigni a bacca rossa più coltivati della Campania sono aglianico, barbera, sangiovese, montepulciano, greco nero, primitivo, ciliegiolo e l’autoctono piedirosso. Tra i vitigni a bacca bianca, ci sono invece falanghina, malvasia di Candia, manzoni bianco, oltre agli autoctoni coda di volpe, greco, asprinio, fiano, biancolella, forastera.

A fronte di 4 Denominazioni di Origine Controllata e Garantita (DOCG), la Campania include ben 15 Denominazioni di Origine Controllata (DOC).
La parte interna della Campania vanta tutte le DOCG della regione. In Irpinia, nella provincia di Avellino, si trovano le DOCG Taurasi, vino rosso da uve aglianico, Fiano di Avellino e Greco di Tufo, due vini bianchi da uve fiano e greco, nonché la DOC Irpinia che ricopre l’intero territorio irpino. La provincia di Benevento, invece, abbraccia la DOCG Aglianico del Taburno, oltre alle DOC Sannio e Falanghina del Sannio.
In provincia di Caserta, emergono le DOC Falerno del Massico, Galluccio, Aversa e Casavecchia di Pontelatone. Nella provincia di Napoli si trovano diverse piccole DOC, quali Campi Flegrei, Vesuvio, le due DOC isolane Ischia e Capri e la DOC costiera Penisola Sorrentina. In provincia di Salerno si estendono invece le DOC Costa d’Amalfi, che ricopre il magnifico territorio della Costiera Amalfitana, Castel San Lorenzo e Cilento.

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